Nel corso degli anni la mia pittura, partita dall'iperrealismo,
è giunta in questi ultimi tempi ad uno
stile che, a un'osservazione superficiale, può apparire
impressionista ma che, dopo una più attenta lettura, si palesa
sostanzialmente dissimile. I miei paesaggi, infatti, non sono
dipinti "en plein air", bensì vengono accuratamente elaborati in
studio, spesso idealizzati, alla ricerca di quella poesia insita
nelle piccole cose quotidiane, poesia che, purtroppo, non si riesce
più a cogliere e che ormai sfugge ai nostri sensi, sopraffatti come
sono da questa società sempre più violenta e superficiale.
Inoltre, altra fondamentale differenza, è
costituita dal fatto che gli impressionisti rappresentavano la
suggestione suscitata nell'artista dalla visione diretta del
soggetto. Io, invece, descrivo la sensazione che il ricordo di quel
particolare soggetto suscita nel mio "io" più profondo. La velocità
con cui, ormai, le immagini colpiscono l'occhio, unita alla loro
enorme quantità, permette di avere soltanto il ricordo di un
frammento di quella particolare visione che ha toccato la nostra
anima e, pertanto, siamo in grado di far riaffiorare soltanto
l'impressione, come ho già detto molto spesso idealizzata, delle
emozioni provate nel momento in cui ci trovavamo di fronte a quel
particolare soggetto. In questo modo, l'attenzione dell'artista si
concentra solo su un determinato dettaglio della scena, mentre tutto
il resto diventa evanescente, rarefatto, frammentandosi nello
spazio. Per questo motivo i miei quadri acquistano la sottile e
impalpabile sensazione di una visione vagamente onirica ma, nello
stesso tempo, diventano più reali della stessa realtà, perché il
quadro si trasfigura in un condensato del reale, come se, in
quell'unico particolare focalizzato, venisse sintetizzata la
verità dei miei sentimenti e delle mie emozioni.
Nelle mie opere più recenti ho cercato di
realizzare dei fondi che ricreassero l'effetto di un intonaco
grezzo, aspro, irregolare e rovinato.
In passato ero convinto che l'arte potesse avere
una valenza consolatoria nei confronti delle brutture del mondo.
Attualmente, purtroppo, sono giunto alla conclusione che, così come
questi sfondi decadenti deturpano, in un certo senso, le mie opere,
l'umanità sta distruggendo l'arte e quanto di bello ci può essere su
questa terra. Gallerie che svolgono soltanto attività di affitta
muri, guadagnando sulla passione dei pittori, "critici" o pseudo
tali che presenziano a manifestazioni di qualsiasi genere e valore,
la gente che, come nella favola del re nudo, non ha il coraggio di
esprimere una propria opinione riguardo alle opere d'arte ma accetta
supinamente il giudizio di questi cosiddetti "critici".
Se un artista chiamasse la coda di un cane zampa,
pensate che questo cane camminerebbe su cinque zampe? Allora perché se
un artista chiama un orinatoio fontana, questo dovrebbe diventare
un'opera d'arte e perdere la sua funzione originaria che è quella di
urinarci? L'arte non è filosofia, non è la moltitudine di arzigogoli e
masturbazioni mentali con cui i "critici" cercano di far apparire
delle cose insulse come opere d'arte. Dovrebbe semplicemente suscitare
nello spettatore emozioni, sensazioni, in una parola fargli vibrare
l'anima. Se uno scrittore inventasse una lingua tutta sua, pensate che
riuscirebbe a provocare nel lettore una benché minima emozione?
La triste conclusione a cui sono giunto è che l'uomo moderno sta
perdendo la coscienza della propria individualità e unicità,
rimanendone, anzi, quasi intimorito; uscire fuori dal coro lo
spaventa, pronto com'è a uniformarsi alla moda e al pensiero del
momento.
L'arte è morta, lunga vita all'Arte!
Marco Vettraino